SAMBA, MESSICO E NUVOLE di Umberto Baldo

La notizia di ieri è senza ombra di dubbio quella che la Fondazione Mps ha ceduto un’altra quota di Monte dei Paschi pari al il 6,5%, portandosi quindi al 5,5% del capitale. L’ente presieduto da Antonella Mansi ha specificato che il 4,5% di tale quota è stato venduto a Fintech Advisory, mentre il restante 2% a Btg Pactual Europe. Il prezzo di vendita di entrambe le cessioni è stato pari a 0,2375 euro per azione, a sconto del 6% rispetto al prezzo di chiusura di venerdì a 0,2527 euro.

Sui media si registra in generale una certa euforia per questa cessione, in quanto la Fondazione ha contestualmente sottoscritto con i due fondi un patto parasociale relativo, tra l’altro, alla governance della banca, al trasferimento delle azioni conferite al patto (lock-up) e al mantenimento delle quote per un totale del 9% del capitale di Mps (6,5% dei sopra citati acquirenti e 2,5% della Fondazione), anche a seguito della medesima quota che risulterà a seguito dell’esecuzione del prossimo aumento di capitale da 3 miliardi di euro di Mps.

Quindi, come scrive l’Huffingtonpost :“Samba, Messico e nuvole. Il fondo messicano Fintech e la brasiliana Btg Pactual sono i nuovi compagni di viaggio della Fondazione Mps. L’ente guidato da Antonella Mansi non ha solo trovato altri due compratori, dopo il colosso americano Blackrock. Ma anche il nuovo socio strategico che, si legge in una nota, serve per garantire “la stabilità dell’assetto societario della Conferitaria” e per “preservare il significativo legame storico con il territorio di riferimento”.

Quindi tutto bene quel che finisce bene, con la Mansi salvatrice della Fondazione e di Siena?

Come sempre, ragazzi, la verità ha più facce, e basta al riguardo leggere la diversa intonazione di questo articolo di Andrea Greco, pubblicato su La Repubblica con il titolo: “Siena si è giocata tutto”: “Dal 51% al 2,5% nella terza banca italiana, una liquidazione bella e buona in meno di tre anni, per salvare la baracca, ripagare i debiti senza fallire e sperare di avere ancora un ruolo nel futuro della banca cittadina: più da spettatore che da azionista di controllo. Con l’ultima vendita di un 6,5% di Mps la Fondazione omonima può dire di aver “messo in sicurezza” i propri conti, ma la fiera istituzione con gli uffici su Piazza del Campo, che ha fatto il bello e il brutto tempo in città per un quindicennio, innaffiando con quasi due miliardi di euro il suo potere e consenso sul territorio senese, mette nero su bianco il suo futuro. Ma quel futuro è un futuro da spettatore nella banca di casa, con una quota che resterà con probabilità ancorata al 2,5% che l’ente guidato da Antonella Mansi ha vincolato a un patto parasociale con i nuovi azionisti sudamericani il 9% delle azioni.

Troppi errori, quasi tutti a carico della passata gestione dell’ente di Gabriello Mancini e dell’istituto di Giuseppe Mussari (sui quali non per caso pendono richieste di danni miliardarie, e nel caso della banca anche inchieste giudiziarie ormai a processo) hanno cambiato il destino della banca senese e del suo azionista. Dall’esosa acquisizione di Antonveneta nel 2008, scegliendo di pagare quasi 10 miliardi cash mentre tutt’intorno il mondo crollava, ai maneggi per continuare a pagare dividendi – e cedole sul bond Fresh – l’anno successivo, all’ostinata negazione di una realtà gestionale in cui i problemi si accatastavano e si era perso ogni controllo o capacità di sanzione sulla “banda del 5%” che ha minato dall’interno le fondamenta del Monte. Fino all’aumento bis del 2011, ancora una volta sfortunato per tempistica, e scellerato per modalità di partecipazione, con l’ente ostinato nel difendere “quota 51%” a Rocca Salimbeni, per non scontentare l’orgoglio cittadino e il potere del Pd locale. E con la tacita approvazione del Tesoro, cui toccava la vigilanza sulle Fondazioni e che permise per quella senese l’indebitamento fino a un miliardo per seguire la ricapitalizzazione per tutto il suo 51%. In pochi mesi, a fine 2011, si rivelò il disastro di quella strategia, poiché la caduta libera dell’azione Mps portò a dover riformulare gli accordi con una dozzina di banche d’affari creditrici della Fondazione, che su quel 51% ormai avevano messo le mani in forma di pegno. Il resto è storia recente, la storia di una liquidazione a prezzi di saldo; anche se a guardare la vicenda con l’ottica di breve termine, bisogna rallegrarsi del rimbalzo che ha portato da 17 a 27 centesimi in pochi giorni l’azione, e senza il quale la svendita avrebbe potuto trasformarsi in una bancarotta per l’ente che Mansi ha avuto in eredità da Mancini.

Adesso la Fondazione, se spera di contare ancora qualcosa, deve appoggiarsi ai due ultimi compratori sudamericani, il fondo Fintech e l’investment bank Btg Pactual. Non è certo, tuttavia, che quel 9% basterà per governare il Monte dopo l’aumento di capitale da 3 miliardi che parte a fine maggio e potrebbe modificare ancora l’azionariato. Intuibilmente, chi sta comprando in questi giorni non si farà diluire con la nuova emissione. Quindi di fianco al “patto del 9%” della Fondazione si può scommettere vorranno dire la loro i fondi statunitensi Blackrock (da oggi ufficialmente primo azionista con il 5,75%) e l’hedge Och-Ziff, accreditato di quote vicine al 5%. Restano poi Axa e Jp Morgan, con una consolidata tradizione a Siena e un 2,5% del capitale a testa.

Da oggi passa in archivio la gloria senese, la difesa del 51% nel Monte, il patrimonio del suo azionista che in pochi anni si è decimato da 6,5 miliardi a qualche decina di milioni ancora da contare bene. Un’ignavia che ancora nel luglio 2011, sborsato oltre un miliardo per difendere quota 51% nell’aumento dopo gli stress test Eba, permetteva di leggere sulla newsletter di Palazzo Sansedoni: “Forse nessuno se n’è accorto, ma nei giorni scorsi a Siena si è compiuta, con pieno successo, un’operazione che rimarrà nella storia della finanza per la sua importanza nel sistema bancario italiano”. Nessuno se n’era accorto, allora. Ma nel giro di qualche mese se ne sono accorti tutti, e oggi Mansi e i senesi devono fare i conti con quegli errori”.

C’è ben poco da aggiungere. Andrea Greco è uno di quei giornalisti i cui articoli si potrebbero definire “impietosi”.

Ma quello che ha scritto su questa pagina della storia del Monte è la pura verità.

Al di là delle capacità, o se si preferisce, della fortuna della Mansi, la parabola del Monte dei Paschi da banca controllata da una Fondazione domestica a public company, con fortissima presenza straniera, si è compiuta.

Piaccia o non piaccia la senesità è un qualcosa che appartiene ormai al passato.

Domani approfondiremo il profilo dei nuovi acquirenti

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